NON TI SCORDAR DI TE(D)
Andata. Sono salito su quel palco, ho raccontato la mia reazione al lockdown. E anche l’idea di aprire questo blog per scrivere a Francesca lettere “aperte”, dove mettere a nudo e pure in piazza i miei sentimenti, per non farla sentire sola. L’intuizione di usare il cinema per spiegare alle nostre figlie l’emergenza, con esempi tratti da film. La mia solitudine nel sentirmi “Arianna” che tiene tra le mani il filo di sicurezza utile a ricondurre la persona amata fuori da un pericoloso labirinto.
E adesso?
È strano parlare al passato, mentre si rivivono le stesse cose.
Eh già, perché sembra di essere arenati in un loop, un circolo vizioso che ripropone le stesse problematiche. Pesci rossi che girano e rigirano in una boccia.
Il mondo è là fuori, si vede benissimo, ma oltre l’isolamento, dietro il vetro del nostro habitat casalingo, manca l’acqua… insomma, fuor di metafora: manca l’aria. E quel poco che c’è non è del tipo “serena dopo la tempesta”, anche perché non siamo ancora davvero arrivati al dopo.
Tutto scorre, comunque, e la sensazione più strana è l’abituarsi a questo esistere asettico. Alle nuove condizioni di vita, sempre più digitale, che mi fanno sentire sempre più ubiquitario, pur bloccato dietro lo stesso schermo: su quel monitor si alternano visi familiari e film hollywoodiani, studenti che seguono le mie lezioni e notizie di cronaca. Vedo tutto, dal mio acquario. Affronto tutto, correndo sul posto come un criceto sulla sua ruota. In gabbia.
È una prigione strana, con le sbarre di burro, dalla quale posso uscire e rientrare a discrezione, autocertificando i miei bisogni: dall’appuntamento semestrale dal gommista per montare gli pneumatici invernali (con la smorfia dipinta sul viso di chi pensa “e a cosa mi serviranno, poi, se l’auto resterà parcheggiata settimane o mesi?!”) fino alle pedalate frenetiche in montagna che da un po’ hanno soppiantato le passeggiate sul monte dietro casa. Ho bisogno di macinare strada, spingermi più lontano, far fatica in modo sistematico, senza tuttavia rinunciare ad immergermi nella natura, unica fonte di benessere, con i suoi colori autunnali. E poi, insomma, le discese fruscianti sui sentieri ammantati da un letto di foglie dalle tinte infuocate… sono vita che vibra come il manubrio che rimbalza sui sassi nascosti dal fogliame.
E poi c’è il percorso quotidiano per accompagnare alla scuola elementare e all’asilo le mie due figlie minori, mentre la più grande resta a casa, confinata al computer per la Didattica A Distanza. Apprezzo ogni metro di quelle passeggiate mano nella mano con le mie bambine più piccole, pensando che in men che non si dica anche loro cresceranno.
Attimi di gioia nella palude del tempo sospeso che viviamo tutti. I rossi e i gialli del parco del quartiere stemperano l’ansia delle quarantene in perenne agguato, pronte a bloccare anche quel che ci resta di una vita sociale. Queste camminate restano tra i pochi momenti che riempiono il cuore di stupore nitido, un inatteso bottino come quello che offre l’albero carico di cachi maturi, doni miracolosi che catturano l’attenzione appesi ai rami spogli, non tanto e solo per il contrasto di colore, quanto per quell’abbondanza e quella promessa di dolcezza che scaturiscono da una pianta che pare frustata dal vento, depredata di tutto, e che lotta per salvare i suoi frutti migliori, come tutti noi stiamo cercando di fare in questo periodo così difficile.
A volte, però, anche in questa cornice apparentemente idilliaca, arrivano piccole cose a ricordarmi quanto abbiamo voglia di normalità. Come lo smartphone perduto che ho ritrovato ieri mattina nel fango di un’aiuola. L’istinto è stato prenderlo e aprire la custodia in cuoio azzurrino per scoprire di chi fosse e restituirlo. Fulmineo è arrivato, tuttavia, il pensiero antisettico: “Ok, lo tocco perché devo... mica posso mollarlo lì... chi l’ha perso sarà felice di riaverlo… ma devo ricordarmi di non toccarmi gli occhi, dopo averlo maneggiato".
Mister C-19 è sempre pronto, in agguato. Se la ride se ti frega mentre fai un gesto gentile. Cazzogliène a lui della cortesia. E adesso non posso neanche asciugarmi le mezze lacrime che il freddo mi fa scendere fino a colare sulla mascherina chirurgica. Sembrerò uno scemo commosso mentre lo restituisco alla proprietaria.
Una cosa l’ho imparata, però, mentre facevo il mio dovere di cittadino aiutato da un gruppo di mamme e amiche, ovvero la piccola task force investigativa messa su al volo per indagare sull’identità di chi avesse perso il telefono: se metti - come me! - sull’immagine screensaver una fotografia dei tuoi figli complichi la vita a chi vuole restituirti un telefono perduto. Eh già, perché nessuno riconosceva ‘sti bambini, mentre se ci fosse stata una foto dell’intera famiglia avremmo visto subito il volto della madre. Facile fidarsi a restituirlo a chi arriva e dice “eccomi, è mio!” in un contesto come quello del nostro piccolo polo scolastico, dove ci si conosce quasi tutti. Ma altrove bisognerebbe chiedere prove più concrete, farsi aprire le gallery d'immagini per vedere se davvero chi reclama il telefono è raffigurato in qualche scatto, oppure interrogarlo a bruciapelo sulla sua rubrica!
Per me e le novelle Charlie’s Angels che mi hanno aiutato, comunque, non è stato difficile: il telefono era privo di password, e in barba alla privacy (forti di un immaginario mandato speciale firmato buon samaritano) abbiamo cominciato a fare ricerche in rubrica. Sotto la voce “casa” c’era un numero probabilmente vecchio, perché la solita vocetta registrata sentenziava “il numero chiamato è inesistente”. Molto bene. “Casa San Pietro in Bevagna direi di no, sa di Puglia e di vacanza”. Ah, l’estate, il mare! Altra lacrimuccia, stavolta non da freddo. E allora vai di spulcia spulcia: tra le app c’era Google Classroom, così abbiamo scoperto quali fossero le classi frequentate dai figli. Abbiamo mandato un messaggio sulle relative chat di whatsapp, grazie ad un’agente speciale madre di un alunno della stessa classe. Lo abbiamo visto comparire sullo schermo del telefono perduto e abbiamo riso! Ma poteva servire per spargere la voce, ovvio che non sarebbe arrivato direttamente all’interessata, magari però in chat c’era anche il marito (ahahahah, il maschio in chat di classe è ancora una minoranza protetta dal WWF, io stesso mi sono inserito solo di recente, lo ammetto). Dopo un quarto d’ora di tentativi vani, per fortuna - prima che combinassimo altri guai - la legittima proprietaria è arrivata, semplicemente perché si era accorta d’aver perso il telefono. Lo speravo: chi riesce a vivere oggi più di 15 minuti senza controllare le notifiche?!
Comunque, morale della favola: sostituirò la foto di copertina del mio cell - che ritrae le mie 3 piccole Minions festanti in un parco acquatico, due estati fa, dunque pure datata - con un’immagine di famiglia, con tutti e 5 ben visibili, così se lo perdo evito troppe elucubrazioni a chi lo trova.
Servirà a farmi riconoscere. E forse anche a me per ricordarmi chi sono, in questo tempo che sembra una palude. Perché mi sento come l’albero infreddolito che regge i cachi e voglio trovare il modo di arrivare a primavera e rifiorire.
In fondo ho realizzato che anche il discorso preparato per TEDx è stato un modo di ri-conoscermi. Sono molto felice dei tanti commenti positivi ricevuti da persone alle quali tengo molto (Francesca, su tutte, che era in sala quel giorno e subito dopo l’ho vista vibrare dentro la sua armatura, forgiata negli anni e rinforzata negli ultimi mesi) e da nuove conoscenze, come anche del rendermi conto di cosa avrei potuto migliorare e di quanto tutto il ragionamento che ho condotto possa essere articolato in sviluppi futuri, primo tra i quali il progetto Cinemap.
Prepararmi per parlare da quel palco mi ha dato l’occasione non solo di ripercorrere e fissare le fasi della mia reazione all’emergenza, ma i miei pensieri ricorrenti, la mia idea di vita, di cinema e di mondo. Un’àncora di salvezza, per sopravvivere nell’acquario, è proprio ripensare al fatto di aver avuto la possibilità (e responsabilità) di esprimermi da quel prestigioso speakers’ corner (come lo ha definito Omar Pedrini, compagno di viaggio in questa avventura - cosa che, come la presenza di altri meravigliosi relatori, ha reso il tutto ancor più emozionante e speciale).
E insomma, adesso i miei 15 minuti di celebrità teorizzati da Andy Wahrol sono andati. E non intendo quelli utilizzati per restituire il cellulare perduto! Ora resta la vita vera, da vivere con coerenza e grinta, nel rispetto dell’immagine di me data in quei momenti.
Che significa? Che, visto che mi capita ogni tanto di questi tempi di sentirmi come l’Atreyu de La Storia Infinita, in affanno, proprio come lui quando cerca disperatamente di salvare il suo cavallo Artax dalle sabbie mobili… dovrò continuare a trovare l’energia per non arenarmi, per andare avanti.
Anche se, proprio come in quel film, vedo il Nulla che avanza. Dico tanto agli altri di orientarsi nella vita grazie ai film, ecco… è ora anche per me di (ri)consultare la mia cine-mappa. E trovare un bel fortunadrago da cavalcare per volare alto sulle note di “Neverending stoooory, la la la, la la la…”.
Forse tuttavia l’ho già scovato: è la bici color diospero (il caco, insomma, dai! per usare il suo nome vero, non "cacofonico") che inforco sfidando il fango dei boschi autunnali.
Credevo che quel colore fosse stato solo una scelta spensierata e impulsiva, invece era il simbolo di una nuova stagione da affrontare con tenacia, come alberi sfidati dalle intemperie che vogliano proteggere i loro frutti.
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