#21 - PRIMAVERA IN SCATOLA


Tre ore di diretta da una cameretta, rintanato a debita distanza dal vociare del mio fantastico trio, che oggi è in compagnia della mamma. Video-lezione sulla felicità, ragionando sul consumo di massa. Il mio telelavoro si configura anche così, nella sfida di spiegare a una nuova classe di studenti dell’Accademia cosa devono aspettarsi dal corso di Psicosociologia dei Consumi Culturali.

In mio soccorso chiamo Zygmunt Bauman (che il correttore automatico, mentre digito, si ostina a trasformare in Batman… ma a pensarci in effetti ha ragione!), che ne L’arte della vita (2012) afferma:

C’è un piacere intrinseco in un lavoro ben fatto, un lavoro che siamo stati noi, proprio noi a fare, con le nostre abilità, dando prova di dedizione. E così lentamente, forse impercettibilmente, nasce quel piacere dei piaceri: il “piacere dell’attaccamento”, la cui salutare crescita si deve in uguale misura alle qualità dell’oggetto di cui ci si prende cura e alla qualità delle cure”.


Ad ascoltarmi 54 studenti, connessi per 3 ore. Sembravano contenti che la materia consentisse anche riflessioni sulla situazione che stiamo vivendo, in particolare quando ho mostrato loro Una vita in scatola, bellissimo e lungimirante corto di Bruno Bozzetto del 1967 e il più recente Happiness di Steve Cutts.

Esco volteggiando, per l’energia percepita da questo scambio umano, nonostante la distanza e i filtri digitali. Dopo quasi un mese in casa è stato puro ossigeno. Ora sto bene, la sfida è valsa il brividino da “primo giorno di scuola”, che si è fatto sentire prima di iniziare. Ero un po’ in pensiero: di solito quando faccio lezione sto in piedi e mi muovo parecchio, intercetto sguardi, costruisco connessioni. E poi c’è quel bel momento al termine, quello in cui qualcuno viene alla cattedra per continuare a commentare l’argomento. È gratificante. Stavolta, invece, parte una chiacchieratina, da finestra a finestra, con i vicini di casa, che mi hanno scorto intento a gesticolare davanti allo schermo. Nell’aria sfumano le note dell’inno nazionale trasmesso in diretta, contemporaneamente, da tutte le radio italiane. 

Esco dall’aula di fortuna e punto dritto verso le mie quattro donne, pronto a ringraziarle per il silenzio che mi hanno garantito dietro la porta. Già immaginavo Bianca intonare canti e cimentarsi in urla a squarciagola… e invece tutto è andato liscio.

Mi avvicino per abbracciarle alla rinfusa e sflash-tonf-blam… inciampo in una cassa d’acqua abbandonata in mezzo al salotto, come fosse un isolotto di plastica alla deriva. Quasi finisco lungo disteso sul tappetino morbido da palestra srotolato lì accanto.

- Ma… cosa ci fa qui quest’acqua?

- Ho fatto un po’ di ginnastica con le pupe - risponde Francy - per tenerle tranquille mentre facevi lezione. 

- Urca, vi è venuta una gran sete - dico ridendo - 12 litri vi basteranno?

- Ma dai, non è lì per quello. L’ho usata per gli squat.

- Cioooè?

- Ma sì, gli affondi. Mi serviva un peso da tenere in braccio.

In un attimo viene annientata la distanza tra la sua recente affermazione “ bella ‘sta cosa del blog, ma adesso basta prendermi in giro per il CrossFit, eh! ” e il mio dubbio “ non è che le metterò strane idee? ” sopraggiunto quando ho scritto che le avrei costruito un bilanciere casalingo con le casse d’acqua come pesi.



Il tintinnio di una valanga di messaggi in arrivo interrompe la coda non verbale della nostra conversazione, fatta di sguardi, sorrisi ironici e sopraccigli alzati.
Svariati mittenti, tutti collegati ad un unico tema. Il Coronavirus, non certo la primavera che inizia.
C’è chi vuole donare un proprio tablet in buon stato al reparto di Rianimazione per fare in modo che i pazienti possano contattare le loro famiglie e chiede come fare. Chi ha domande sui sintomi tipici. Chi chiede “ come va? ” e fa il tifo per lei. Chi le scrive “...ma davvero fai CrossFit??! ”. Ops, stavolta mi sbacchetta davvero. Per fortuna, se ho capito bene, l’indulgenza plenaria per i medici si estende ai loro familiari.

Lei, in modo certosino, risponde a tutti, talvolta direttamente dallo smartwatch. E quando ci parla dentro, portando il polso alla bocca, mi viene in mente David Hasselhof che dialoga con la sua auto KITT, nel telefilm Supercar, che guardavo da bambino. 
Sarebbe bello uscire da questo casino del Covid-19 semplicemente come lui, che in ogni puntata quando si trovava in pericolo bastava dicesse “KITT vieni a prendermi” e riusciva a svignarsela.

Effettivamente, se la situazione globale si è trasformata in un film apocalittico, la vita quotidiana sembra esserne il backstage: tutto si svolge con ritmi ben cadenzati, ma a tratti in modo frenetico, come su un set.
E anche i pasti, per Francy e i suoi colleghi, sono come quelli dei lavoratori del cinema: cestini.
Purtroppo non vengono preparati dal servizio catering di una grande produzione hollywoodiana, sembrano piuttosto da b-movie a giudicare dalle descrizioni: insalata, una vaschetta di affettato, un micro-formaggino, del pane, un frutto e uno yogurt. Da quando è chiusa la mensa i turni da 12 ore sono scanditi da queste delizie.
Ma è un’altra la questione che mi/ci preoccupa di più: quella dei dispositivi di protezione individuale, che - nonostante la grande generosità di tanti donatori - scarseggiano.

- Amore, ma come siete messi con i dpi? Ne avete a sufficienza?
- Eh… per ora.

Non vuole farsi vedere preoccupata, l’ho capito. E poi basta leggere i giornali per avere un’idea della complessità della situazione: i sanitari continuano irriducibili a combattere, migliaia di persone fanno donazioni (la raccolta #aiutiaAMObrescia ha superato gli 11 milioni di euro), ma il contagio avanza e le vittime sono tante: otto pagine fitte di necrologi sul quotidiano cittadino fanno accapponare la pelle. 4.825 morti in Italia, che oltretutto pare sia una stima al ribasso. Un appello ufficiale degli ospedali bresciani alle istituzioni invoca restrizioni più rigide per interrompere la catena dei contagi: bisogna chiudere tutto. La gente deve stare a casa.

A questo punto della storia ci vorrebbe proprio un intervento della Provvidenza manzoniana, in stile Promessi Sposi.

Detto fatto. 
Incredibile quanto talvolta la felicità nasca nelle sale d’attesa dove la vita ci conduce senza troppe spiegazioni.
Il telefono suona e l’annuncio fatto da una nostra cara amica ci coglie come l’esplosione di una primavera improvvisa: un imprenditore cinese vorrebbe donare il corrispettivo di 40mila euro a Brescia, per l’emergenza Coronavirus. Desidera essere messo in contatto con diretto con medici affidabili e sapere cosa serve esattamente.


Passiamo il pomeriggio su WeChat, una specie di WhatsApp su cui ci invitano per scambiarci messaggi direttamente con la Cina. Sembriamo un comitato di crisi casalingo: gli interlocutori chattano velocissimi, ad Oriente è tardi e vogliono concludere prima di andare a dormire. Il loro incalzare mi ricorda la risolutezza di una ristoratrice asiatica che conosciamo, che mentre ti fa il conto alla cassa, contemporaneamente gestisce conversazioni telefoniche per il take away e chatta su 2 diversi smartphone. 

Ci mandano un file con un elenco dettagliato di forniture disponibili, alcune già sul territorio italiano. Francy scrive e nel frattempo parla al telefono con un mediatore di questa operazione di beneficenza che per fortuna sa l’italiano. Chiama il suo Primario per informarlo e valutare le necessità principali.
Io nel frattempo faccio i conti per capire quante mascherine e quanti camici possiamo richiedere. Quelli sono dpi assolutamente necessari per proteggere i lavoratori. Tutto sommato nella cifra ci sta anche un ventilatore. Evviva!
La chat creata dai cinesi per l’occasione si chiama… Forza Brescia.

Provo esattamente la sensazione descritta da Bauman analizzando la felicità: “…l’irresistibile piacere dell’ «io-tu», del «viviamo l’uno per l’altro», del «siamo una cosa sola». Il piacere di «fare una differenza» che non sia importante solo per sé. Di avere un effetto e lasciare un segno. Di sentirsi necessari e insostituibili. Una sensazione profondamente piacevole, anche se tanto difficile da ottenere e completamente irraggiungibile, se non inconcepibile, quando ci si trova soli con la cura di sé, quando l’attenzione è concentrata in modo angusto sulla creazione, affermazione e valorizzazione di sé stessi. Quella sensazione può venire solo da sedimentarsi del tempo, di tempo riempito dalle cure - le cure sono il filo prezioso di cui sono intessute le tele rilucenti dell’attaccamento e della comunanza”.

Il tutt’uno si scinde quando Francy esce per il turno di notte, ma solo per una questione di presenza. Restiamo uniti nel pensiero. 

Alle 9 della mattina successiva rientra, con i solchi dell’elastico della mascherina ben visibili sugli zigomi. È comunque il viso più bello che io abbia mai visto. Stavolta, tuttavia, la luce brillante dei suoi occhi è velata. 



Dice: “Notte terribile, vado subito a dormire. Stasera ne ho un’altra da fare e devo essere lucida”, mentre mostra un lungo messaggio in cinese sullo schermo dello smartphone.
Ti riassumo: sono dispiaciuti, ma la maggior parte delle cose che abbiamo scelto nella lista sono esaurite. Propongono mascherine di altro genere, dobbiamo controllare sulle linee guida quanto filtrano, per vedere se vanno bene. Se riesci inizia a dare un’occhiata tu. E poi i camici… pare che gli unici rimasti siano un modello giapponese da 50 euro ciascuno, pazzesco, quelli dell’elenco di ieri partivano da 3,62 dollari per arrivare fino ad un massimo di 31,59$. Ah, ventilatori finiti”.

Vorrei leggerle un passaggio di Bauman, per darle la buonanotte mentre alle bambine diamo il buongiorno e la colazione; è il nostro momento tutti insieme. Ma vedo che è già intenta a rileggere sul tablet un documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità dedicato agli standard delle mascherine.


Terrò a mente le parole di Bauman per quando si sveglia, per darle benzina per affrontare il suo nuovo giorno-notte:

La nostra vita è un’opera d’arte - che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo - come ogni artista, quale che sia la sua arte - porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare (almeno per quanto si è visto fino allora) ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare. Dobbiamo tentare l’impossibile. E possiamo solo sperare - senza poterci basare su previsioni affidabili e tanto meno certe - di riuscire prima o poi, con uno sforzo lungo e lancinante, a eguagliare quegli standard e a raggiungere quegli obiettivi, dimostrandoci così all’altezza della sfida”.

- O all’altezza della sfiga, amore. Dai, parafrasiamo Batman e continuiamo la missione! 

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NOTE

Il testo di Zygmunt Bauman citato è "L'arte della Vita" Editori Laterza, 2008.

La fotografia "Primavera" è di Ettore Pilati.

Per approfondire l'opera di Bruno Bozzetto è consigliabile partire dalla coinvolgente visione del film Bozzetto non troppo di Davide Bonfanti.

Per saperne di più su Happiness di Steve Cutts ecco una mia breve analisi per L'Illustratore Italiano.

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