#28 - EROI E HIKIKOMORI



- Papà, mi manca la mia vita normale. 

- Ci vorrebbe una fiala di fortuna liquida di questi tempi. Quella di Harry Potter. Quella che viene promessa come premio alla classe di magia dal professor Lumacorno, nel sesto capitolo della saga.

- Già. Vorrei che tutto tornasse come prima. Andare a scuola e a fare gli allenamenti in piscina. Al cinema. Dai nonni.

- Piccola, hai ragione. Dobbiamo avere pazienza. E pensare che le nostre rinunce sono, talvolta, un po’ difficili… ma c’è chi sta affrontando un dolore molto più grande. Non devi spaventarti, ma lo hai capito ormai che la cosa è molto seria. Una situazione così non era mai capitata. Tu stai tranquilla, la affrontiamo insieme, non sei sola. E per fortuna hai anche le tue sorelle, impossibile stufarsi davvero quando si fa parte di un gruppo di Minions, no? Domani ci inventiamo qualcosa per stare un po’ allegri, dai! Adesso dormi, tesoro. Buonanotte.




Assurdo ritrovarsi da cinque settimane rintanati in casa. Proprio come suggerisce il termine stesso, sta diventando una tana. Una grotta che ci tiene al sicuro, ma ci incatena ad osservare solo immagini riflesse della realtà, come le ombre nel mito della caverna di Platone. Ogni notizia dal mondo reale, dunque, si carica di aspettative: assume un’aura tragica o mitica. Bisogna fare più tamponi. Medici albanesi in arrivo ad aiutarci. La nostra terra, da sempre abituata a cavarsela da sola, stavolta sta soffrendo troppo e si sente abbandonata: il nostro sindaco lancia addirittura un appello sulla tv nazionale

Fuori la tempesta e noi siamo qui, dentro. 
Nella nostra confortevole casa. Apparentemente al sicuro, a parte il pensiero per la mamma, che è tra quelli che vanno avanti e indietro a domare l’incendio che - anche se forse non vogliamo ammetterlo del tutto - sta mettendo in ginocchio la nostra città e il mondo in genere.

Noi siamo qui. Sempre qui. E il brivido lungo la schiena, come genitore, mi viene quando realizzo che la situazione ormai si è spinta talmente oltre le aspettative da non consentire il ritorno alla normalità in un batter d’occhio alla fine di questo brutto incantesimo.
Ci vorrà un periodo di ripresa, dove prendere le misure con gli accorgimenti per attuare la ripartenza. Troveremo un mondo un po’ diverso là fuori. Come dopo un improvviso temporale estivo, di quelli che mettono in fuga i bagnanti dalla spiaggia. Tutti si rintanano negli stabilimenti balneari, stretti sotto piccole tettoie, nascosti nelle minuscole cabine-spogliatoio. Le nubi si sfogano, il cielo si rasserena. Si può tornare all’ombrellone. Ma la sabbia è umida come quella del bagnasciuga. Una distesa infinita di piccoli puntini: porta i segni di ogni singola goccia di pioggia. E prima di tornare a vivere la normale sensazione estiva di benessere si deve attendere l’intervento della carezza calda del sole.

Proprio come la spiaggia, alla fine di questa emergenza Covid-19 la nostra città sarà cambiata. L’intera società porterà i segni di ogni lacrima versata. Dovranno asciugarsi uno ad uno.



Fuori la tempesta e noi siamo sempre qui, dentro.
Come gli hikikomori giapponesi, quei giovani che rifiutano di uscire dalle loro stanze e vivono anni isolati da tutti, tuttavia iperconnessi al mondo esterno tramite Internet, informatissimi. Bloccati nella grotta.
E pensando a come stiamo vivendo mi viene in mente anche un documentario straordinario visto pochi anni fa, The Wolfpack, storia vera e agghiacciante dei sette fratelli Angulo, cresciuti nel Lower East Side di Manhattan come se fossero su un'isola deserta: segregati in casa, uscendo un massimo di nove volte all’anno, ma saltandone alcuni, di anni. Papà Oscar era l'unico a possedere le chiavi di casa, un semidio che poteva andare e venire. Lasciava entrare solo l’immagine della realtà che voleva che i suoi familiari si costruissero; in pratica era l’autore dello spettacolo di ombre della loro personalissima caverna di Platone, che metteva in scena per assicurarsi che moglie e figli non venissero "contaminati" dal mondo esterno. 



Una cosa che mi colpì moltissimo del documentario fu l’abitudine dei ragazzi a girare remake di film famosi dentro casa, citando ad esempio scene di registi cult, come Tarantino.
Conoscevano il mondo e la vita solo tramite i pochi film visti. Ragionavano attraverso i pochi elementi acquisiti e si aiutavano, tramite le storie, a farseli bastare.

È di certo un ragionamento estremo, ma dopo 5 settimane in casa, mi chiedo se non sia iniziato un processo volto a cambiare la nostra percezione del mondo. E come gestirne lo sviluppo. Modulando correttamente le sensazioni potremmo accorgerci di quante e quali cose davvero ci servono per essere felici, ad esempio.
Ma il primo, pressante, compito al quale siamo chiamati è ridefinire gli standard del nostro vivere comune. Ho l’impressione che stia andando bene dal punto di vista logistico, al netto degli assalti ai supermercati dei primi giorni.
Meno edificanti, invece, appaiono le diatribe sui ruoli e sulle etichette, in particolare quella di eroi, che qualcuno percepisce come fastidiosa.
A partire dal fatto che, sebbene rigiocato in un ambito personale - dedicando questo blog a mia moglie Francesca, medico di Rianimazione - ho inserito nel titolo addirittura la parola supereroe, mi sento chiamato ad una difesa di questa terminologia. O almeno a rivendicare la libertà di utilizzarla liberamente, senza correre il rischio di risultare fuori luogo. Comprendendo d’altro canto perfettamente che qualche operatore sanitario possa non gradire l’essere messo su un piedistallo una tantum, immaginando che questa gloria momentanea passi (mi auguro di no, sarebbe un atteggiamento davvero miope) e tutto torni alla routine di prima, quando anno dopo anno i lavoratori della sanità si sono visti sottrarre diritti acquisiti. Vorrei rassicurare chi si trova in questa situazione, almeno per quanto mi riguarda: l’entusiasmo non sarà momentaneo. Al contrario: l’occasione ha semplicemente dato il via ad un incendio che già bruciava sotto la cenere, quello del desiderio di rendere merito a chi dedica la vita a curare gli altri.



Resto nel presente, fermo, in casa. Osservo quanto accade cercando di sfuggire alla trappola platonica, cercando la luce in fondo alla caverna, tentando di non lasciare che le comodità di questo esilio tutto sommato confortevole mi faccio accomodare in una condizione da hikikomori, rintanato, con i genitori che gli portano colazione, pranzo e cena lasciando il vassoio sull’uscio.
E così quando riesco a guardare fuori, oltre la mia finestra, vedo Brescia. Sta soffrendo troppo. E negli ospedali siamo davvero sotto pressione. La società liquida teorizzata da Bauman fa i conti con una pandemia. Ci vorrebbe un po’ della fortuna liquida di Harry Potter. È il momento di dimostrare che avere una natura fluida, capace di riorganizzarsi in base i bisogni, oltre che essere caratteristica acquisita - quasi un risvolto dell’individualismo imperante - può rivelarsi anche una dote. La esprimono gli ospedali, trasformandosi e ampliandosi per far fronte all’emergenza e accogliere molti più pazienti rispetto alla capienza. 
Ma sarebbe auspicabile vedere una efficace capacità di reazione anche da parte di tutte le istituzioni, per coordinarsi al meglio e correre in soccorso alle zone più colpite dalla pandemia.

Non è tempo per polemiche, questo.
E tra l’altro non le amo, in genere. Dunque spero che le parole che sto per scrivere non generino fraintendimenti. Mi sento, infatti, in dovere di dire qualcosa riguardo alla “semiotica dell’eroismo”. 
Eh già, chiamiamola almeno così, se vogliamo dibatterne, come mi pare stia iniziando ad accadere, leggendo opinioni sull’inadeguatezza dell’etichetta di eroi, che, in modo naturale, abbiamo iniziato ad utilizzare per rendere merito al grande impegno al quale sono chiamati tutti i sanitari di questi tempi, per omaggiarli. 

Ridurre tutto ad un braccio di ferro sulla percezione soggettiva della singola parola mi pare banale. Una questione di lana caprina.
Ai bambini, per far affrontare questa situazione serenamente devi mostrare il lato eroico della mamma (e anche ironico, aggiungo), mica pettinare il dramma. Meglio un cartoon come Gli Incredibili per crescerli sereni e con senso di giustizia, oppure subito un film di Rosi (che sia Francesco o Gianfranco)? 
Alle elementari, per spiegare cosa sono le mafie, mostrereste Gomorra o La mafia uccide solo d’estate ? Eh? È una questione di contesto e pubblico. Io racconto questo periodo d'emergenza come cronaca dei modi utilizzati per parlare alle mie bimbe. E noto che questo approccio aiuta a smorzare i toni del dramma collettivo che stiamo vivendo. 



Mi pare che si faccia inutile e sterile polemica su questa definizione di eroi. Il mondo sarebbe migliore se notassimo tutti i piccoli gesti eroici intorno a noi, come il fruttivendolo che ti porta la spesa a casa, l’insegnante che legge ogni sera ai suoi alunni un capitolo di una storia via WhatsApp. Questo è eroismo. Forse un eroismo alla David Bowie (just for one day, diciamo.. per l’occasione) e perché non dovrebbe andar bene anche quello? In un mondo sempre più individualista, popolato da schiere di soggetti pronti a smarcarsi da ogni dovere o responsabilità l’eroismo praticamente coincide con la rettitudine d’animo. Pagare le tasse, ad esempio, non è eroico, è un dovere. Ma oggi qualche evasore starà forse riflettendo sull’importanza di contribuire alla sanità. E qualcuno, invece, le tasse le ha pagate sputando sangue, pur di adempiere ad un dovere sociale. Eroico.

- Sapete una cosa, bimbe? Adesso lo dicono in tanti, comunque la mamma era eroica anche prima: un medico con tre figlie, partorite sotto gli sguardi giudici di chi pensa che così metterai a rischio la carriera (con la prima gravidanza mentre frequentava la Scuola di Specializzazione, quando ancora non le veniva riconosciuto uno stipendio, sempre rientrando al lavoro il più presto possibile dopo il parto, approfittando in punta di piedi dei diritti dei lavoratori perché altrimenti la Sanità, già con forze ridotte all’osso dai tagli di bilancio, non poteva andare avanti e i colleghi dovevano sostenere troppi turni). Se non fosse stato per una certa forma di eroismo, se avesse prevalso l'egoismo, l'arrivismo... voi, di fatto, non ci sareste. E invece, evviva i Minions!
La mamma è sempre stata eroica e stavolta ho pensato che fosse il caso di farle sapere, pubblicamente, che lo penso. 


Lasciateci chiamarvi eroi, noi hikikomori abbiamo solo voi.

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Le fotografie di questa pagina sono state scattate da Ettore Pilati.

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