#9 - OGGI MI HANNO FATTO IL TAMPONE. Stai tranquillo.


Quando l’auto di mamma Francesca si avvicina al cancello di casa, il nostro cane riconosce il rumore del motore e va a posizionarsi davanti alla finestra, emozionato e fiero come una sentinella pronta a dare notizia a tutti della visita di una regina.

Ultimamente, accanto a lui, siamo in quattro ad osservarla dall’alto mentre parcheggia, ansiosi di leggere subito la piega del suo primo sorriso, per capire come sta.



«Sembra di essere in guerra. È super-contagioso, ormai nella nostra Rianimazione abbiamo solo pazienti con il virus, oltre una dozzina. E non solo noi: ovunque nell’ospedale ci sia un ventilatore polmonare viene creato un posto».

Le bimbe ed io le chiediamo come stanno queste persone. E come si sente, lei, dinanzi a loro. Sono tutti messi male? O ha occasione di parlarci?

«Niente parole. Sono tutti intubati, attaccati al ventilatore, dunque sedati. Tutti quadri clinici spietatamente simili. Sembra una guerra, un flusso di feriti raccolti sul campo di battaglia».

Percepisco il suo stupore. Capisco quello sgomento, nonostante la sua tenacia non faccia trapelare segnali di debolezza.
Il medico di Terapia Intensiva è abituato a ricevere gente con alle spalle le storie più toccanti, che siano sfortune improvvise - come i traumi causati da incidenti stradali o sul lavoro - oppure storie cliniche che sembrano calvari giunti ad una tappa critica.

È un lavoro minuzioso, contano i dettagli, la visione d’insieme del quadro del malato, la pazienza… E allora le gioie dei piccoli progressi fanno da contrappunto alla fatica, danno l’energia per affrontarla, anche nel cuore della notte. Il reparto è un piccolo universo operoso sempre sveglio, attivo, pulsante.
Circola notizia che quando l’influenza da Coronavirus si aggrava, si traduce in polmoniti per chi ha già una situazione clinica già compromessa. Si parla molto degli anziani come categoria a rischio e così le nostre bambine sono preoccupate per i nonni. Prendo Francesca in disparte e le chiedo dettagli.

«Il soggetto tipico ricoverato, a voler essere precisi, ha caratteristiche molto comuni: settantenne iperteso e sovrappeso. Insomma, non ci sono solo ottantenni e novantenni già debilitati. E comunque non è un’esclusiva dei più anziani, abbiamo anche giovani adulti. Il fatto che il primo paziente italiano sia un maratoneta di 38 anni non è un’eccezione».

In Italia in 10 giorni siamo arrivati ad oltre 3000 casi. 
1820 in Lombardia. Attualmente il ritmo del contagio, nella regione, si attesta intorno ai 300 nuovi soggetti positivi al giorno. 
Il 12% riguarda medici e operatori sanitari.
Impossibile non pensare alla mamma, scoprendolo.

Senti - le chiedo - ovviamente mi fido di te al massimo e so che fai le cose con coscienza, ma… siete a posto con i presidi di sicurezza? Com’è lavorare con addosso tutte quelle protezioni?

«Abbiamo il necessario, anche se è strano e fastidioso vedere gente che non fa il nostro lavoro - e quindi non è chiamata a stare a contatto così ravvicinato con il virus - girare nei corridoi dell’ospedale con le mascherine FFP3, cioè le più sicure, ricercatissime, che noi teniamo da parte per indossarle quando effettuiamo le procedure più a rischio per la propagazione del Coronavirus, come l’intubazione o la pulizia delle vie aeree dei pazienti. Per il resto… ho questo segno rosso sul naso perché è arrivata una fornitura di mascherine turche con l’elastico cortissimo, stingono da pazzi. A parte questo simpatico fastidio, lavorare così è molto diverso dal solito, più che altro ti senti isolato dal mondo quando entri e ti chiudi la porta alle spalle, come se andassi in immersione in un acquario. Comunichiamo con i colleghi attraverso un vetro, quando abbiamo bisogno. Surreale».

«Ah, poi, oggi mi hanno fatto il tampone».

Come? Davvero? Perché proprio a te? Il mio primo istinto è mosso da una negazione primordiale dell’evidenza, come quando da bambino cadevo dalla bicicletta e disteso sull’asfalto pensavo “no, no non è successo niente, va tutto a meraviglia, adesso mi guardo mani e ginocchia e non uscirà il sangue” e poi, invece, proprio osservando la pelle per un istante vedevo solo graffi bianchi e poi all’improvviso, ma al ralenti, le temute gocce rosse sgorgavano e allora desideravo avere il tasto rewind.

Il mio cervello riceve uno stimolo, captando la notizia del tampone, ed elabora pensieri assurdi: mi viene in mente la mia visita di leva, a diciotto anni, quando degli sconosciuti in fila con me confabulavano per riuscire ad evitare di urinare nel bicchierino di plastica. “Se dici che non ti scappa, giuri che non riesci proprio… allora ti fanno tornare un altro giorno per le analisi. Più ritardi è meglio è, così non ti trovano il thc”.
Torno dal flashback. 

Uh, il tampone - le dico con tono scherzoso - non sei riuscita a svicolarlo, eh? Potevi farti prestare il muco da un collega sano! Che schifezza, baby. Bene, invece, dai, così ci togliamo il pensiero. E come è stato?

«Stai tranquillo, si tratta di normali controlli sul personale di Rianimazione. Fastidiosissimo: un cotton-fioc lunghissimo nelle narici - che mi pareva arrivasse al cervello - e poi in gola. Che ridere: ho iniziato a tossire per il fastidio proprio nel momento in cui arrivava una seconda infermiera nella stanza, che così mi ha fatto il terzo grado su eventuali sintomi. “Ma lei ha la tosse? Da quanto?!”. Seriamente però: se il mio risulta positivo non vengo più a casa. Mica posso contagiare le bimbe e te e tutta la famiglia».



Ok. È sempre la mia solita Francy, quella punk che ascolta i Green Day in auto a volume da concerto. Che, pensandoci, forse il cane riconosce quelli quando la sente arrivare, non il rumore del motore.

“Porto l’animale biondo a fare due passi sul monte, così mi sgranchisco anch’io”, le dico, cercando di non farmi vedere pensieroso.
Raggiungo a passo sostenuto il sentiero che sale sulla collina dietro casa, cercando di non pensare al tampone. È giusto farle questo esame. Hanno fatto bene. È meglio. Ci togliamo il dubbio. E mi ritrovo a correre in salita, anche se non ho messo l’abbigliamento adatto. Sudo. Ma decido di accelerare. Non sento la fatica, anzi, ogni passo mi dà l’impressione di respirare meglio, uscire da un’apnea. Ma vorrei il tasto rewind, come da bambino, per tornare subito a casa e non perdermi neanche un attimo della sua presenza.

Magari mettere un brano come Basket Case, per ricordarci insieme quella volta che a vent’anni, per suonarlo con la mia band giovanile ad una festa di Carnevale, la mia fantastica Francy, studentessa di medicina, ci prestò i camici da dottori per citare il famoso videoclip dei Green Day in manicomio.
Vorrei ballarlo insieme alle mie ragazze cantando il passaggio che dice: “Sono uno di quegli sciocchi melodrammatici /nevrotici fino all’osso / non c’è dubbio / A volte mi faccio venire i brividi da solo / qualche volta la mia mente mi gioca brutti scherzi / tutto continua a sommarsi / penso di esser sull’orlo della rottura…”.

Basta uno sguardo d’intesa con il quadrupede, torniamo giù.
Apriamo la porta e troviamo mamma e figlie avvinghiate, nell’intreccio d’affetto di una partita di Twister. Proprio come la traduzione del nome di questo gioco anni Ottanta, la vita è, del resto, un tornado di emozioni. Sceglierlo tra tanti, proprio oggi, dev’essere stato un modo di dar sfogo a tutti gli abbracci possibili, anche quelli non garantiti dei prossimi giorni.

Mi butto nella mischia.





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