#31 - HO PRESO LA RESILIENZA QUI
Non è la prima volta che restiamo chiusi in casa per settimane, l’esperienza inedita è che stavolta a farlo è tutto il mondo. Sì, perché a noi è già successo - a Francy, in particolare - per colpa di una gravidanza a rischio. Quasi un mese d’ospedale e poi una primavera, quella del 2007, sul divano di casa a esercitare l’arte dell’attesa.
Era la mia regina operosa in quel periodo: riuscivo a viziarla, ma per resistere all’immobilità doveva avere sempre qualcosa da fare. Fu allora che organizzò tutti i miei dvd in faldoni, catalogandoli. E volle aiutarmi a finire di confezionare i gadget per la mia prima rassegna cinematografica per le scuole, che prendeva forma quell’anno: erano dei bellissimi set di matite colorate in astucci cilindrici, di cartone, sui quali bisognava incollare lateralmente un adesivo con il logo “L’Ora dei Film”. Erano mille, come i potenziali spettatori. Mille piccoli gesti accurati. Mille frammenti di quell’attesa occupati a pensare ad altro.
Quando anni dopo Federica venne per la prima volta da spettatrice alla rassegna, con la sua classe delle scuole elementari, a vedere il bellissimo film Vado a scuola, continuavo a guardarla: quella meravigliosa bambina illuminata di rimando dalla luce dello schermo cinematografico era la stessa che la sua mamma aveva “covato” con la forma d’amore più pura che c’è, quello incondizionato di chi sa di essere responsabile del futuro di qualcuno.
Oggi siamo chiamati a questo gesto, come collettività. Rimanere sul divano è un atto di civiltà. Fa un po’ sorridere, chi l’avrebbe mai detto? È come se lo “schiacciare un pisolino” tipico di Paolino Paperino fosse diventato la soluzione ad uno dei problemi più inattesi e fantascientifici mai affrontati nell’ultimo secolo: una pandemia.
Tuttavia, pensandoci, saper aspettare è una delle sfide più grandi per l’uomo. Iniziamo a capirlo fin da bambini: avere pazienza è una dote che si acquisisce con l’allenamento. È un traguardo della mente.
Stare fermi, in questi giorni, è per molti un’occasione di riflettere. Che poi per tanti genitori questa immobilità sia solo una questione di geolocalizzazione è un’altra storia, con protagonisti Minions da gestire e vari telelavori.
Per i bambini, a questo punto, è diventata di certo un’esperienza cardine dell’infanzia: difficilmente se ne dimenticheranno, quindi è meglio cercare di fare di tutto per rendere memorabili questi giorni attraverso piccoli accadimenti piacevoli, che vadano a compensare la nostalgia per quel mondo che da settimane vedono solo dalla finestra.
Uno spunto di riflessione significativo potrebbe venire proprio dal film citato: è un documentario che racconta diverse storie di ragazzini che percorrono tragitti molto impegnativi pur di raggiungere la scuola. Ore di cammino attraversando monti, pianure, foreste in diversi angoli del pianeta. Nelle savane popolate da animali pericolosi del Kenya, sui sentieri tortuosi delle montagne dell'Atlas in Marocco, sui vertiginosi altopiani della Patagonia o nel caldo soffocante del sud dell’India. Quest’ultima è l’ambientazione di un particolare viaggio: Samuel di 11 anni, spinto per 8 km dai suoi fratellini su una carrozzina di fortuna, costruita a partire da una sedia di plastica da bar. Una storia ancora più toccante ripensandoci oggi, mentre tutto pare cristallizzato.
Strano contrappasso per Francesca: stavolta il mondo è fermo, mentre tocca a lei uscire di continuo, per prendere parte alla schiera di persone chiamate ad “aggiustarlo”.
E proprio oggi escono insieme, Francy e Chicca, mamma e figlia, e non per la passeggiatina dell’ora d’aria, boutade che ha tenuto l’agenda politica sotto scacco per un giorno, tra voci impazienti che si levavano e pareri più cauti e pacati che riflettevano sul pericolo di rendere inutili tutti i sacrifici fatti finora per evitare il contagio, ripopolando troppo presto le strade.
Federica deve andare in ospedale, oggi. Nel covo del Covid. E il mio sangue si ghiaccia e sono pronto ad infrangermi in mille pezzi a terra, se inciampo nel pensiero sbagliato.
Tocca andarci per forza, per una serie di visite mediche programmate da tempo e già slittate nelle ultime settimane, ora improrogabili. Tutto sotto controllo, sta bene, ma questo day hospital pediatrico va fatto.
Sono tranquillo, cintura nera di calma (forse non per meriti, ma già in dotazione alla nascita, insieme ad alcune vibrazioni sotterranee d’ansia, diffuse a livello familiare). Resto a casa con Emma e Bianca. Mi alleno a surfare placido sull'onda degli eventi fin da quando sono diventato padre per la prima volta, quasi 13 anni fa.
Dopo il periodo in casa, infatti, Francesca partorì addirittura oltre il termine previsto, ma all’improvviso alcune complicazioni trasformarono il parto in un cesareo d’urgenza. Eiettato fuori dalla stanza dai medici, mi ritrovai a contare i mattoncini rossi di una delle pareti esterne dell’ospedale Civile.
Ero solo, per scelta. Sguardo fuori dalla finestra e pensieri esplosi in ogni direzione. Ogni porta che s’apriva era un tuffo al cuore. Non sapevo neanche se a lottare per nascere - a pochi metri da me, ma in un altrove impenetrabile - c’era un maschio o una femmina. Volevamo una sorpresa. Federica o Mattia, il nostro amore sarebbe stato incondizionato. Volevamo una sorpresa, come le coppie d’altri tempi. La ritenevamo una scelta romantica. E ancora mi emoziona pensarci. Poi, certo, le due volte successive non abbiamo ripetuto questo teatrino (che prevedeva una serie di cautele da parte di ginecologi e ostetriche ad ogni ecografia: divertentissimo sentirli titubanti nel parlare, per paura di sbagliare un aggettivo e svelarci tutto). In ogni caso, ora è chiaro che siamo specializzati in femmine.
Mai l’avrei immaginata tutta questa meraviglia, quando la voce squillante di un’ostetrica ruppe il silenzio della mia trepidante attesa: chi è il papà di questa bambina? Ero solo, in corridoio. Nessun capannello di futuri padri a fumare sigarette anti-nervosismo e accavallare le gambe sincronizzati, come nelle fantasie più diffuse. Dunque mi feci avanti, titubante. “...È Federica? Quindi è una femmina? È mia figlia?”. Un momento indimenticabile.
- E come sta Francesca?
- Ha perso molto sangue. Ma sembra bene, ci vorrà un po’ prima di vederla. Intanto facciamo il bagnetto alla piccola, veloci perché il rianimatore pediatrico ha appena finito di liberarle i polmoni: non respirava, aveva inalato molto liquido.
Era bellissima, ma sembrava di madreperla e stava immobile, come un cucciolo impaurito. Giusto un saluto e me la portarono via. Poi conobbi l’angelo che l’aveva salvata, il dott. Paolo Villani, che non ho più rivisto, ma ho sempre pensato di voler tornare a ringraziare portando con me Federica, una volta cresciuta. Mi rendo conto che adesso è proprio giunto il momento - stamattina, vedendola uscire orgogliosa di una giornata da sola con la mamma: coraggiosa - lo farò.
Il dottore mi disse: “La sto monitorando, per precauzione ho deciso di portarla in Terapia Intensiva Neonatale. Venga in reparto così le mostro dove la mettiamo e non si spaventi, la vedrà intubata. È meglio così, si fidi, sta bene, ma ha subìto uno stress rilevante, meglio essere cauti”.
Nel frattempo si era fatta sera. Riuscì a vedere Francesca, finalmente, e a spiegarle tutto. Il giorno dopo, finalmente, la accompagnai a conoscere, insieme, la nostra bambina. A curarla uno staff di medici e infermieri bravissimi, rassicuranti. Noi neogenitori ogni giorno avevamo due orari di visita, all’inizio la adoravamo dentro l’incubatrice, senza poterla prendere in braccio. Tutti erano tranquilli, ma il momento di portarla a casa, che pareva sempre dietro l’angolo, tardava ad arrivare, come la primavera vista dalla finestra di questi giorni. Alla fine furono 2 settimane. Francesca tornò prima - per fortuna - e ricordo che in quei giorni vivevamo nell’attesa degli orari di visita, nella nostra casa vuota, che aspettava Federica.
L’attesa è un’arte, non si può insegnare e forse non si finisce mai d’impararla.
Aspettare è, paradossalmente, come correre una maratona: non serve solo essere allenati, ci vuole testa.
Forse l’unico trucco per imparare la resilienza è ripensare a chi è stato in grado di affrontare prove incredibili, come i miei adorati nonni, divisi a vent’anni da una guerra e in grado di aspettarsi a vicenda per anni, prima d’iniziare la una meravigliosa storia d’amore, più di mezzo secolo di matrimonio.
Affetto, allegria e uno sguardo sempre vigile sul mondo: questo si respirava nella loro casa, che ho frequentato quasi ogni giorno durante infanzia e adolescenza.
Affetto, allegria e uno sguardo sempre vigile sul mondo: questo si respirava nella loro casa, che ho frequentato quasi ogni giorno durante infanzia e adolescenza.
Che gioia essere riuscito a far conoscere loro almeno Federica, tra le mie figlie, anche se per poco tempo.
Per fortuna conservo una fotografia del momento in cui, finalmente, anche loro la videro e la strinsero tra le braccia.
La aspettavano, trepidanti nel cuore come tutta la famiglia, sebbene sapessero perfettamente esercitare l’arte dell’attesa.
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NOTE
La fotografia n.1 (tende del triage, checkpoint sanitario) è stata scattata da Nicola Zambelli.
NOTE
La fotografia n.1 (tende del triage, checkpoint sanitario) è stata scattata da Nicola Zambelli.
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