#60 - IL PRIMO MAGGIO e IL FUTURO DEL LAVORO



Ho fatto colazione con la mia rockstar preferita.
È Francesca, certo. Ho sempre pensato che essere rock sia una categoria dello spirito, un modo di prendere la vita, qualsiasi cosa si faccia. Dunque anche rianimare pazienti, non solo folle oceaniche ai concerti.

Stamattina, inoltre, lei si è presentata per il caffè con una nuova camicia lunga a scacchi che pare arrivare direttamente dall’era grunge, dall’armadio di Kurt Cobain o da un baule di scena di Eddie Vedder. Chiarisco - a scanso di equivoci matrimoniali - che è un capo attualissimo con un taglio moderno e un tessuto di una leggerezza unica, niente a che vedere con la flanella da boscaiolo di certe camicie che mettevo io al liceo negli anni Novanta per emulare i miei miti musicali.




Vedendola uscire ed essendo oggi il Primo Maggio, penso al lavoro. Anche al mio. 
La palestra del giornalismo freelance e l’appartenenza generazionale all’alba della famigerata “generazione mille euro” mi hanno abituato alla flessibilità. E siccome preferisco vedere il lato positivo dei tempi agghiaccianti vissuti da tutte le professioni culturali che ho frequentato negli ultimi 15 anni e con le quali continuo ad intessere relazioni promiscue, senza che nessuna di esse si decida mai a sposarmi, ma facendomi comunque credere che mi ama di più così, perché l’assunzione è una gabbia per l’amore… la mia rivincita è stata - ed è - continuare a pensare che mi sono goduto e mi sto godendo la mia famiglia e le mie figlie al massimo. E adesso che Federica sta crescendo non rimpiango neanche un minuto del tempo trascorso a cambiar pannolini, ninnare, cucinare pappette. Ho già capito che è la parte fisicamente più faticosa, ma sempre più semplice dello sbarco sul Pianeta Adolescenza. 

Dunque, insomma, scrivere da casa non è stato un problema (basta sostituire il rumore di sottofondo: dal vociare di una redazione, al canticchiare/piagnucolare di un asilo) ed ero forse già abbastanza allenato a farlo.

Lavorare in casa è stato come correre su un tapis roulant, tornare fuori, dopo la tempesta, sarà bello perché si respirerà l’aria leggera degli spazi aperti. 
Potremo guardarci in giro, alla ricerca dell’arcobaleno. Ma dovremo anche evitare buche e pozzanghere. Riabituarci a sentire ogni asperità del terreno.

Ripartiamo, dunque, da casa. Siamo pronti a farlo? Pare di sì, la voglia che si respira è tanta. Ma siamo davvero pronti a ripartire con il piede giusto? 
Oltre all’entusiasmo ci vorrà pazienza. Una strana coppia.

Nel mio caso, ad esempio, non è neanche una ripartenza, ma la conferma di una modalità “in remoto” che porto avanti già da settimane: lezioni per Accademia SantaGiulia e ITS Machina Lonati fatte su Google Meet, “incontrando” per la prima volta due nuovi gruppi di studenti online - in totale un’ottantina di persone - essendo corsi del secondo semestre. Un sabato ho gestito il recupero della sessione d’esami - persa a marzo - online (mentre ero a casa solo con le 3 pupe, con la quasi tredicenne Fede messa a capo truppa) e sabato prossimo non ci faremo mancare neanche le lauree online e per fortuna che la mia tesista Giulia aveva organizzato la bellissima mostra (la cui curatela rappresenta il progetto di tesi) del disegnatore Marco Galli alla Fondazione Cominelli di San Felice del Benaco già l’inverno scorso… sarebbe stato davvero un peccato annullarla.

- Papà, oggi che lavoro fai e in che stanza lo fai?

Questa la domanda della primogenita al risveglio. 

- Tranquilla, non ti sfratto dalla scrivania, oggi è il Primo Maggio! E poi non hai notato come sono fluido? Quando non ho videoconferenze da fare, posso appoggiarmi in qualsiasi angolo. Certo, magari lontano da dove risuonano le note di Frozen o del Re Leone.

- Ok. Quindi non devo guardare Bianca ed Emma? 

- Salvo strani imprevisti no. 

Anche il Giornale è chiuso, dunque non c’è neanche la piccola adrenalina dell’articolo da dedicare ad un accadimento improvviso (nel mio caso di solito premi vinti da registi che seguo). 

- Sai, Fede, che invece tra una settimana inizierò un nuovo corso di cinema, sempre a distanza, per l’Università della città del mio nonno Mario? Como. È da lì che viene il nostro cognome. Peccato non poterci andare fisicamente. Si è già deciso, responsabilmente, di non riaprire le aule almeno fino al prossimo settembre.

È emozionante per me questo “ritorno”. Lui era venuto a Brescia per amore, anche lui come l’altro mio nonno dalla Puglia. Le bresciane li hanno conquistati! (Anche se nonna Clara aveva origini venete, in realtà. Però viveva qui: suo padre aveva una storica tabaccheria in Piazza Vittoria). Si sono sposati e hanno fatto gli insegnanti di matematica tutta la vita, per buona parte della carriera al Liceo Classico Arnaldo. Che tempi. Hanno messo su famiglia e si sono comprati casa in città, al mare e in montagna con due stipendi da insegnanti. Fantascienza, adesso. Certo, avevano sofferto da giovanissimi, durante la Seconda Guerra Mondiale. Forse il destino ha voluto dare una sorta di compensazione a quella generazione. 

La nostra sfida, oggi, è tener testa all’ennesimo cambiamento strutturale, nel lavoro e nell’economia (per ora se ne parla, vedremo gli effetti prossimamente, e quando penso alla coda lunga della crisi finanziaria del 2007/2008 qualche brivido mi viene).

Al di là di analisi tecniche, mi interrogo molto sulla risposta sociale al momento che stiamo vivendo. Quella a breve termine è molto bella e con uno sguardo sensibile e attento alla solidarietà in città, la sta raccontando bene l’amico Nicola Zambelli con le fotografie e i testi del suo progetto "What makes us weaker, makes us closer".
Mi incuriosisce e interessa molto il domani: il tempo che verrà. Credo che per renderlo affrontabile, in termini di sostenibilità delle attività, si debba ripartire dai bisogni reali, concreti. Spazi sociali da vivere serenamente e in sicurezza, beni di consumo fondamentali, relazioni. 

- Federica, mentre aspettiamo che si sveglino le sorelline per la colazione, vieni, ti faccio vedere un video.

- Cos’è? Videoclip nuovo? YouTuber? Quello di Checco Zalone è di ieri, già visto.

- Vieni qui, adoleshame!  È un’attivista. Tu che dici di essere ambientalista, senti come spiega l’approccio di vita utile a salvaguardare il Pianeta… e l’umanità. Si chiama Annie Leonard e da anni parla a milioni di persone con i suoi video che spiegano come ridurre i consumi, prediligendo una semplice strada: vivere secondo la regola del “meglio” e non quella del “di più”.

Il più famoso è The Story of Stuff (La storia delle cose), che ha dato il nome a tutto il progetto. Trovo, tuttavia, molto costruttivo questo, che descrive il sistema economico come fosse un grande gioco in scatola…




- Bello. Ma, papà, come si fa? Alla fine quasi tutti sembrano avere comportamenti sbagliati, dai fast food al comprare tantissime cose inutili…

- Hai ragione… e non dobbiamo neanche diventare dei “tromboni” antipatici che fanno la morale a chiunque incontriamo. Secondo me si comincia raccontando storie. Le storie giuste.

Quali sono? Non quelle che, lentamente ma inesorabilmente, ci hanno portato ad accettare di buon grado l’esagerazione pubblicitaria, illudendoci di essere immuni ai suoi richiami, fino ad abituarci alle non-verità simpatiche, quelle divulgate in nome dell’intrattenimento.

Basta storytelling emozionanti, ma completamente illusori, sradicati da qualsiasi base di verità! Come quello, per intenderci, di Birilli dal 1929, uno dei ristorante di Piero Chiambretti che nel nome porta una data che ci dà la sensazione di una tradizione, di essere stato fondato quasi un secolo fa… e invece è nuovo.

Rolf Jensen nel 1999 teorizzava la Dream Society: quella società dei sogni dove le storie valgono più del prodotto. Sono passati vent’anni: è ora di cambiare rotta.

Queste storie ci hanno portato ad un “distanziamento sociale” mentale, ancor prima di quello al quale di obbliga il Coronavirus. E che nel caso delle abitudini da mantenere nei prossimi giorni, inoltre, trovo che sia una definizione “imperfetta”: la società deve rimanere coesa. 

È bene riflettere sull’importanza di ricordarci che si intende una distanza fisica, nulla di legato alla comunicazione (che può avvenire in altri modi) e dunque alla socialità.

Insieme, innescando un dialogo tra produttori e consumatori possiamo farcela.
E il lavoro potrà tornare un’attività proficua non solo al profitto, ma per il nostro sviluppo come esseri umani.


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ANNUNCIO:

Per raccontare storie di uomini e donne che lavorano con una passione che arriva ad essere poesia, domani con l’amico filmmaker Simone Rigamonti lanciamo una webserie alla quale stavamo lavorando da tempo: YouMani.





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