#53 - SALDI DI FINE RAGIONE



. Prontooo...

Il bana-fono suona sempre all’ora dei pasti. È l’unico tipo di telefono consentito a tavola, anche per i grandi. Salvo emergenze, in casa cerchiamo di dare la precedenza alla vita reale, soprattutto nei momenti di famiglia.

Tut tuut - tut tuut

- Pronto papy?

- Ciao Bianca! Come stai?

- Non sono Bianca, sono Sarabi.

- Ah. Chi? La mamma di Simba? Quello del Re Leone? Come sei selvaggia oggi!

- Certo. Io sono una leonessa… e… io rido in faccio al pericolo!

- Eeeh? Ahahaha! Ma da dove salta fuori questa?

- È una battuta del film papà... - interviene Federica in aiuto.

- L’ha rivisto nel pomeriggio, mentre cercavo di imparare la tabellina del 7 - spiega Emma.

- Io sono Simba adesso. Resettate tutto! - ordina Bianca.

- Ahahahaha!

Ma dove li impara certi termini? Io e le sue sorelle ci guardiamo complici, sorridendo con gli occhi.

Abbiamo tutti i nostri bana-foni in mano. Avviamo alcune chiamate per fare due risate, mentre mamma Francy ha appoggiato per un attimo il suo, preferendo uno smartphone vero. È alle prese con una piccola urgenza: è arrivata la griglia dei turni di maggio in Rianimazione e ha appena scoperto che il giorno del compleanno di Federica non sarà libera. Si è, così, messa in moto la macchina degli scambi: sta cercando di capire se qualche collega è disposto a coprirle una giornata e in quale momento del mese, poi, rendergli il favore.
Lo schema che ha davanti è come una battaglia navale con una ventina di squadre.




Le telefonate reali, a differenza di quelle con i bana-foni diventano occasioni di rassicurazioni sulle condizioni di salute e confronti sulle esperienze di questo duro periodo. E così mentre noi a tavola proseguiamo con altri numeri del circo dei Minions, lo sguardo di mamma viene a poco a poco trascinato via dall’allegria casalinga, una serenità homemade che tanto stride con le storie drammatiche là fuori, tanto è importante mantenere perché le nostre bimbe ne hanno bisogno. Dopo due mesi le storie drammatiche che ricorderemo sono tante e molte le racconteremo alle nostre figlie quando avranno l’età giusta per comprenderle. Adesso somministriamo loro solo la dose di racconti utile a spiegare cosa sta accadendo e perché restiamo ancora tutti chiusi in casa, mentre si avvicina il 3 maggio, e dovremo trovare le parole per argomentare una riapertura generale che non va di pari passo con quella delle scuole. Già mi aspetto le domande, lineari, delle bambine: “ Perché il resto sì e le scuole no?”. 

I più piccoli sono un grande specchio di razionalità, dovremmo ricordarci tutti più spesso di prendere decisioni immaginando già le loro possibili perplessità: faremmo scelte migliori.

I bambini ci mantengono umani e ci costringono ad essere uomini e donne al massimo delle nostre potenzialità. In questi giorni così complicati, il confronto con l’infanzia è stato per molti adulti il motivo di costringersi a trovare un baricentro per restare in equilibrio.
Ad esempio c’è chi guidando ha pianto, tornando dai turni d’ospedale. Una cara amica di Francesca, Infermiera di Emergenza, ci ha confidato che riusciva a smettere solo perché, entrando in casa, non voleva farsi vedere così scossa dal suo bambino di quattro anni.

Non credo che la gente che ha ripreso l’auto in questi giorni ed è già in giro, spesso per futili motivi, si renda conto di cosa si prova, a trovarsi a fronteggiare il ciclone Covid-19. Prima cercando di placarne la furia dell’occhio, ossia in corsia con i malati, poi di corsa fuori, a rimettere in sicurezza tutto quello che ha devastato con il suo passaggio.
Una ricostruzione delicata, perché spostare le macerie può essere pericoloso, causare altri danni. E la preoccupazione, intanto, è quella di guardare il cielo, per controllare che la perturbazione sia davvero passata: perché non ci sono le forze per affrontarne una seconda ondata.

La sensazione, purtroppo, è che molti stiano decidendo di applicare, a propio piacimento, uno sconto sul lockdown.
Mi viene voglia di chiamarli saldi di fine ragione

Perché se non per empatia, almeno per razionalità si dovrebbe ricordare la fila muta di camion dell’esercito che caricava le bare a Bergamo un mese fa. Dovremmo tenerla a mente prima di ritrovarci in coda in tangenziale con una settimana d’anticipo sulla fine delle disposizioni di isolamento sociale, come pare sia già accaduto in questi giorni.
Sembra impossibile, invece giravano immagini di un ingorgo stradale, mentre la natura si riprende i propri spazi e a Piazza Navona cresce l’erba tra i sampietrini, lasciati riposare dal classico calpestio.

All’inizio di questo diario, correvano gli ultimi giorni di febbraio, ho definito la situazione “una specie di episodio pre-apocalittico di Casa Vianello”. Dopo due mesi trascorsi sempre nella stessa casa, è come se la nostra vita fosse diventata proprio come quella dei personaggi di una sit-com, che esistono solo all’interno dello spazio delimitato dalle scenografie. A parte Francesca, che si assenta per i turni in ospedale, io e le bimbe siamo sempre “sul set”. 

Esattamente come in quel tipo di show televisivi, c’è sempre una porta su un altrove che nessuno vede, se non con squallide immagini fisse (di solito l’esterno della casa, oppure un panorama della città dove è ambientata la storia, tipo la Los Angeles dall’alto dei Forrester di Beautiful). La porta è il limite, il filtro tra la realtà e il mondo sospeso della fiction, che segue della regole precise, per essere efficace. Esattamente come la quarantena. 

E se l’immagine che abbiamo della quarantena si modifica, il nostro ambiente sicuro viene destabilizzato. Se fuori cambiano le condizioni, dentro cominciano i pensieri e le domande, dal “Papà, perché gli altri escono?”, al “Mamma, ma se c’è troppa gente in giro è pericoloso? Anche per noi? Anche se stiamo qui e facciamo i bravi?”. 

Una importante caratteristica delle sit-com, che le rende piacevoli in quanto rassicuranti, è che in ogni puntata succede qualcosa di nuovo, che si inserisce nello schema della quotidianità e lo sovverte, poi l’elemento nuovo viene affrontato e infine si ritorna all’ordine prestabilito.
Le novità arrivano dalla porta, o con una telefonata. 

Gli episodi di Casa Vianello duravano sempre una giornata e si concludevano tutti nello stesso modo: marito e moglie seduti nel letto, pronti a darsi la buonanotte. Di solito Raimondo intento a leggere un giornale, imperturbabile. Sandra, invece, ancora nervosetta a causa di qualcosa di irrisolto.




La dinamica divertente, tra i due, era sancita dalla conclusione: lei scivolava in posizione supina e, rimboccandosi le coperte, sembrava cominciare a dormire. Invece, dopo pochi attimi immobile, iniziava a sferrare calci sotto le lenzuola, che si gonfiavano in modo ridicolo.
Una protesta muta contro le ingiustizie. Un modo di “dire” a Raimondo “occhio che non tutto va bene”, ricordati di non guardare solo in superficie.

Lui, imperturbabile, al limite distoglieva lo sguardo un attimo dalle sue letture per guardare questo moto di stizza prendere forma.
Ricordo, tuttavia, qualche eccezione. Addirittura una volta fu lui a tirar calci sotto la trapunta.

In questo momento il nostro finale di puntata è così: Francy è come Sandra Mondaini che dà i calci sotto le coperte. Io un Raimondo Vianello che vorrebbe farlo insieme a lei, ma si trattiene perché sa che è più utile girarsi e lasciar parlare gli abbracci.


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